PERCHE’ SI PRATICA

Entrata nella pratica clinica dalla fine degli anni ’70 come rimedio allo stress per opera di Jon Kabat-Zinn ora la mindfulness è considerata da diversi esperti una leva per l’avviamento delle pratiche cognitive di nuova generazione, e viene indicata in paesi come Usa, Gran Bretagna e Olanda come supporto per la cura della depressione.

La ricerca si è aperta infatti negli ultimi anni a declinazioni che spaziano dalla comprensione dei disturbi alimentari e il trattamento dell’obesità alla gestione dell’ansia e delle crisi di panico, del disturbo ossessivo compulsivo, del dolore cronico, fino a volerne investigare gli effetti anche nel mondo dell’infanzia e nel campo dell’apprendimento.

Non solo, ma è ampiamente praticata anche da medici e paramedici anche per migliorare il rapporto medico-paziente.

Fuori dall’ambito clinico la mindfulness riscontra allo stesso modo un alto tasso di gradimento del pubblico. Alle strutture specializzate si rivolgono infatti sempre più spesso persone che vogliono percorrere questa strada per provare ad aumentare le proprie capacità di concentrazione in vista di traguardi importanti come quelli delle performance sportive, del mondo dell’imprenditoria e dell’alta finanza.

Cosa dicono le neuroscienze
Il versante dove la ricerca sta provando a dare risposte più immediate è sicuramente quello delle neuroscienze dove, in particolare grazie alle nuove risorse strumentali, è possibile oggi raccogliere informazioni sempre più dettagliate e in tempi anche rapidi sugli effetti della mindfulness sul cervello. Attraverso le tecniche di imaging cerebrale, per esempio, sono stati individuati cambiamenti nella morfologia di alcune aree della corteccia in seguito a trattamenti di almeno 8 settimane, e in particolare in quelle deputate alla memoria, all’empatia, alla consapevolezza di sé e allo stress.

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